“Errare è umano, perseverare diabolico” massima di ortopedia
Che tutti cadano, ma l’importante è rialzarsi lo sa persino Edoardo Leo nei panni dell’annoiato figlio di papà post-crisidel2008 di “Io c’è”.
E non è questo il punto.
Il punto è capire perché, sennò aivoglia a rialzarti, il deretano farà l’abitudine a tornarci per terra. Ci si farà la forma, del pavimento. E viceversa (dipende eventualmente dalle dimensioni. Del deretano).
Perché cadere, dice il saggio, è importante per salire. Per aspera ad astra, dicono gli antichi. Ché, a salire con la scala siamo tutti bravi, salvo avere i DPI (1) dell’anima per star al riparo dalle rovinose cadute. E quindi… quindi meglio crescere in altezza, che salire a proprio rischio e pericolo. E per crescere, ci vogliono radici. Forti, radicate, sviluppate… come quelle degli alberi che non riesci ad abbracciare nemmeno se ti cloni. Ci vogliono i piedi saldi al pavimento, cioè.
Meglio partire dal corpo, dice la bioenergetica, che poi allo spirito ci arriviamo di conseguenza.
Meglio partire da mamma e papà, dicono psicanalisi e psicosintesi, quei due poveri disgraziati che, non volendo, ti hanno programmato caditore seriale. E non te la puoi nemmeno prendere con loro, adesso: mica ti costringono più a fare i tuoi passi falsi, adesso.
Meglio partire dall’Inferno, diceva Dante; che al Paradiso poi ci arrivi. Per davvero.
Ed eccoci là, gambe all’aria, deretano lì, nella fossetta per terra dove ci si è fatto la casa, a guardare le stelle che sono tanto lontane quanto le “aspera” stabiliscono le distanze. Eccoci là a guardare il cielo stellato sopra di me. Quella cosa tanto bella e distante quanto la voce della “legge morale” dentro di me. La “cosa giusta da fare”. Che, se non era così distante, o, per dirla in altri termini, così difficile da sentire, mica ci finivi per terra.
Fa male. Fa talmente male che per quante cadute si possano accumulare, stiamo lì, continuamente a cercare vaccini anticaduta tanto inutili quanto dannosi.
Intanto, già la parola non ci piace. Cadere, fallire… to fall in inglese. Che suona romantico quando cadi in love, e molto meno piacevole quando si declina in failure: in medicina indica insufficienza, scompenso. Cardiaco, ad esempio: un cuore che non ce la fa a star dietro alla vita, che non è adeguato ai battiti che servirebbero per respirare, ragionare, muoversi, amare. Inadeguato, insufficiente… bocciato. Così si sente uno che cade. Bocciato dalla prova della vita, il test improbo per il quale, evidentemente, non hai studiato abbastanza. Il ragazzo è capace, ma non si applica abbastanza.
Ciò cui non veniamo di routine addestrati è ad apprendere che veramente ci si può rialzare; in attesa della prossima caduta, ben inteso. E non perché sia una specie di sfiga obbligatoria, connaturata nell’essenza stessa della vita e dell’uomo, ma perché… perché tutto gira così. Gira così la testa, e basta. Tutto cade: la forza di gravità della verità delle cose.
Difficile, assai difficile è capire il senso della caduta quando si sta lì a terra, a contemplare le stelle lontane. Capirete, il dolore di dietro è abbastanza urente e forte da non permettere il pensiero lucido. Che già è tanto se non ci si è rotti qualcosa. Persino i lividi necessitano di quei quindici venti giorni di prognosi per essere riassorbiti dai fibroblasti; figuriamoci gli ematomi da trauma violento dell’anima.
E però, anche nel post-caduta, anche nel doloroso lamentio contemplativo delle stelle, schiena a terra, soprattutto lì e allora… tra uno smadonnamento e l’altro, tra una crisi isterica e l’altra, rabbiosa e inutile e ulteriormente dannosa e insalubre… soprattutto lì e allora ha senso consapevolizzare che non sarà per sempre.
Che c’è speranza. Di non cadere per lo stesso idiota motivo seriale, di nuovo.
Di riuscire a costruire, non una corazza, che quelle che conosciamo sono di cartone, e non servono a niente, ma una vera essenza dentro la finta corazza. Un’essenza autenticamente coriacea che faccia passar di moda la corazza. Quell’essenza che mette le radici, che può crescere salda, retta e forte, e può quindi essere talmente salda retta e forte di suo, per principio ontologico, che non potrà cadere… non per quella miseria precedentemente occorsa, almeno.
E però, devi per forza cadere, sennò le maniche per costruire quest’essenza non te le tirerai mai su. Fidati: è scientificamente e statisticamente provato. E allora fa’ che ne sia valsa la pena. Fin troppo facile e seducente è l’istinto di usare la caduta come scusa per dire “Lo sapevo. Lo sapevo che sono un fallito. Un fallimento totale dell’evoluzione della specie umana – o aliena, a seconda – Ma che mi ero messo in testa? Di credere, davvero davvero, di essere giusto, retto… niente meno, speciale?”. Più difficile è ammettere che così era, e così può cambiare… a patto che ci si ricordi di cambiare, per parafrasare una massima di una persona molto più saggia di me. Più difficile è ammettere che non c’era altra scelta, che il programma sul disco rigido prevedeva la caduta, e non si poteva prevenire in alcun modo, proprio come il robot non può far altro che quello che gli viene impartito di fare. E cioè cadere.
E allora, fa’ che ne sia valsa la pena. Fa’ che le tue azioni non procurino altro dolore, specie agli altri. Questa è una sacrosanta responsabilità. Ché, come si diceva, a cadere siamo chiamati tutti, ma nessuno mai è giustificato nel provocare dolore gratis.
Fa’ che ne sia valsa la pena, e quando rotolerai sul fianco, e poggerai il palmo della mano per terra, e farai leva sul bicipite e sulle gambe nello sforzo di riguadagnare una posizione eretta e più bilanciata di prima… chiedi scusa, al dolore, agli addolorati incolpevoli. E soprattutto a te stesso.
Prenditi i tuoi tempi, ma non farci la muffa: tirati su le maniche, che c’è un’essenza da fare.
(1) DPI: Dispositivi di Protezione Individuale. Indispensabili ai dipendenti per non esser vittima di incidenti o simili sul lavoro, e ai datori di lavoro per non beccarsi le salatissime multe.