Ci sono giorni in cui un alieno è un nautilus

Earthy Nautilus ShellCi sono giorni in cui un alieno è alieno a se stesso.

Non sa più chi è, come si chiama, dove deve andare.

Non ricorda come si fa a stare in piedi; a tenere la schiena dritta; le spalle rette, a sostenere un collo che più pesante non si può. Non respira bene. Non se ne accorge neppure: i globuli rossi c’hanno fatto il callo alla cianosi imperante, il suo incarnato pallido la dice lunga. Galleggerebbe bene nello spazio.

In quei giorni la sua forma perfetta è il nautilus, avviluppato su stesso, a proteggere e circondare il suo minuscolo centro caldo, il suo universo. Perché un alieno è freddo, anche d’estate. Talmente freddo che potreste usarlo come frigidaire portatile: almeno ha la sua collocazione pratica sociale.

Protegge quel suo minuscolo centro caldo da tutto e tutti, da qualunque ingerenza indebita: è l’unica cosa preziosa che ha. Allora si avviluppa, sul fianco, come una chiocciola, come un millepiedi improvvidamente disturbato: costruisce con le secrezioni della sua fervida mente glaciale un solido guscio che lo ripari. Lo separi. Tagli fuori tutto il resto, tutti i pericoli, tutte le rotture, tutto ciò che possa turbare la quiete di quel minuscolo fragile centro caldo.

Ma è un guscio rigido. Ha le sue crepe. Non regge gli urti della vita. Servirà uscirne per non soffocare; servirà romperlo, di necessità, perché la vita esige il movimento, e tutto ciò che è fermo, in realtà, è morto.

L’immobilità è attributo della morte, dice il saggio.

Il nautilus vivente lo sa e non lo sa. Vorrebbe pre-nascere; ovvero tornare alla piccola non vita, quella forma acquatica prenatale, in cui poteva, sì, dormire. Poteva proteggersi. Sì, lì poteva tagliare fuori tutto il disturbante logorio roboante della vita con gli umani. Ma quel tempo è passato; quella casa uterina è stata abbandonata e non tornerà mai più.

Non vorrebbe essere freddo, l’alieno; non vorrebbe restare nautilus per sempre. Ma non conosce altra via, altra forma… il piccolo centro caldo è tutto ciò che sa: è la cosa più preziosa che ha. E più provate a provocarne il guscio, più le secrezioni aumenteranno. Più il suo minuscolo centro caldo si ritirerà in disparte, lontano dalla vita. Inutile che cerchiate di scardinarne la crepa con un grimaldello: egli sa ritirarsi ancor più dentro, dentro un dentro invisibile a occhio umano, laddove il suo centro caldo sarà inaccessibile. Nessuno che non sia un alieno può capire la sofferenza e la distanza da qualunque altro umano che si prova in quei momenti. Non vorrebbe… e tutti i tentativi, proprio perché alieno, risultano goffi, maldestri, malauguri auto-avveranti. Quando l’alieno vien fuori dal guscio è un mollusco: dovrà imparare a secernere una nuova sostanza esoscheletro, che sia flessibile, che sia penetrabile, eppure forte; che gli permetta di espandere il suo piccolo centro caldo, di scaldargli le estremità periferiche. Di scaldargli il pensiero.

E riportarlo alla vita, con fiducia rinnovata nel genere umano. In se stesso. In quelle gambe che ricorderanno come si fa a stare in piedi; in quelle spalle di nuovo capaci di sostenere una testa non più pesante; in quel torace ora in grado di respirare come un mantice. Ricorderà chi è, come si chiama, dove deve andare.

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