“Il tuo diploma in fallimento
è una laurea per reagire”
Non è per sempre. E se lo dice persino Manuel Agnelli, uno che la sfiga ce l’ha codificata nel DNA, ed espressa in una facies a dir poco “espressiva” appunto (la fisiognomica non è un’opinione, una delle mie poche ma sostanziali certezze), c’è da crederci sul serio.
Non è per sempre la sfiga. Non è per sempre il fallimento. Non è per sempre l’autocommiserazione coatta e autoavverantesi… posto, ovvio, che ci si ricordi di smetterla con l’indulgervi (memo: come ci insegna il solerte Bruce Willis in The kid, l’autocommiserazione è la prima causa di morte sotto i – numerodelcaso – anni).
Come faccio a dirlo? Semplice. Volevo suicidarmi. L’ho desiderato un numero imprecisato di volte, talmente forte, che ho materialmente visto il mio corpo spiaccicarsi sull’asfalto. Ho contemplato tutte le ipotesi possibili: essendo un po’ vigliacca, di fondo, avevo scartato il taglio delle vene, e le armi da fuoco; avevo contemplato i sonniferi, invece, e il veleno. Ma il volo mi è sempre parso più, come dire, semplice, pratico, radicale, e definitivo. E, giusto perché lo sappiate, il fatto che qualcuno avrebbe risentito della mia mancanza, non mi sollevava alcun senso di colpa, nè ha mai rappresentato un sufficiente deterrente. No. Quel che mi ha salvato, lì per lì, a parte i giri in macchina ossessivi del mio compagno di allora (e non lo ringrazierò mai abbastanza per questo), è stata la consapevolezza di lasciare troppe cose a metà. Di andarmene prima di aver concluso qualcosa. Magari, qualcosa di utile. Più nello specifico: la sensazione di esistere, a prescindere da tutto e tutti questo mi ha salvata.
Certo, bioenergetica e psicosintesi nella comunità di Hodos di Fauglia sono stati strumenti di ricostruzione non da poco a tale scopo, lo ammetto. Ma io ho voluto, ho creduto che ne valesse la pena. Di salvarmi. Anche quando ero convinta di essere una fallita totale, la più grande delusione di mamma e papà, un’inetta incapace e smidollata, l’ultima degli ultimi e senza alcuna speranza.
Non sono perfetta. Non mi interessa più esserlo. E non sono normale, nel senso proprio statistico del termine: non rientro nella curva gaussiana della normalità terrestre. Non rientro in un pensiero politico, non rientro in un movimento filosofico, non sarò mai un medico “tradizionale” (sono persino accanitamente e coscientemente no-vax ), non sarò mai una scrittrice modello, e non sono decisamente una giornalista freelance modello… ah, sì, per finire: non sarò nemmeno mai una figlia modello. Ma su questo credo che mio padre se ne sia fatto una ragione.
Ho fallito, ho sbagliato, ho ferito e ho commesso un’infinità di errori. Ho molto da migliorare. E molto da offrire ancora, da esprimere ancora, questa è verità. Un valore, la verità, che amo, ricerco e inseguo ogni singolo giorno della mia vita e che, forse, è anche stato il motivo fondante la mia crisi esistenziale: il senso di questa vita. Il centro di gravità permanente.
Alle medie ho subito atti di bullismo, abbastanza pesanti da segnarmi. Ero in sovrappeso, portavo il busto ortopedico, l’apparecchio ai denti, gli occhiali, soffrivo di molti disturbi cronici, e soprattutto commettevo il grave crimine di essere intelligente e più sveglia di tutti loro messi insieme. Non particolarmente intelligente e sveglia, sia inteso: dalle mie parti si dice “Nel paese dei ciechi quello con un occhio fa il sindaco“. Ci voleva davvero poco a fare il sindaco coi miei ex compagni di classe. Come se ciò non bastasse, sono stata testimone di cose che non avrei voluto vedere a quell’età, cose che mi sono portata dietro mio malgrado. Per molti anni non mi sono guardata allo specchio. Per molti anni ho rimosso tutto, ricordi che per strane ragioni ho recuperato alcuni mesi fa.
(Oh, non compatitemi, non sono una povera vittima: nella vita, certe volte le dai, e certe volte le prendi. Allora le presi; poi le ho anche date. E quel karma, loro credo lo stiano già scontando. La mia rabbia omicida, invece, l’ho trasformata in una serie di romanzi, e un giorno diventerà un centro antibullismo, dove le vittime impareranno arti marziali, e i carnefici la meditazione. Come ho fatto io. Ecco, se c’è una cosa che mi dico quando le prendo è “Ottimo, Angy, nuovo materiale per farne una nuova storia…“)
La ragazzina di allora, il bruttissimo anatroccolo invisibile che si è sempre creduto sfigato fino ai tempi dell’Università, era programmata così. Non capiva, non sapeva, non vedeva. Non si vedeva. Quando la mia vita è cambiata, e il mio stile di vita è cambiato, quando cioè ho compreso a fondo la massima “Se vuoi cambiare il mondo, cambia te stesso“, sono addivenuta ad una nuova realtà. L’ho costruita con le mie mani, come ho scritto in una canzone, e continuo a farlo ogni singolo giorno. Ogni singolo giorno in cui macino idee su idee, azioni concrete su azioni. Per mettermi al servizio della Causa. Questo solo ha senso.
Perciò sì, si può cambiare. Se si vuole, si può cambiare. A patto, dice il maestro, che ti ricordi di cambiare.
Quella ragazzina mai avrebbe pensato di posare come modella per la fotografia. E invece è successo. Per un limitato periodo di tempo, è successo. Dovevo guardarmi da fuori, con gli occhi degli altri. Dovevo capire cosa si vede da fuori, cosa si può essere di alternativo a come ci pensiamo. Dovevo capire che si può fare pace col proprio avatar, familiarizzare con un’immagine che non ero abituata a guardare, e che però è (anche) me. Che tutto ciò che si agita dentro trova il modo di esprimersi fuori.
Siamo tante cose. Siamo tutto, in effetti. Siamo il bene e il male. Siamo ciò che crediamo e ciò che giudichiamo. Siamo, soprattutto, vivi, e la vita esige di essere vissuta in ogni sfumatura della sua palette di emozioni, passando per il dolore, l’angoscia, la paura, la rabbia, l’odio, e pervenendo alla gioia, la speranza, l’entusiasmo, la leggerezza. L’amore.
Le circostanze sono solo porte per entrare in una nuova stanza di noi: gli urti della vita aprono brecce già aperte. Usare queste porte per guardarci dentro può essere un buon modo per sfruttare costruttivamente l’occasione di star col culo per terra. Verrà il momento di andare avanti, perché non è per sempre; c’è così tanto da fare prima della fine. E poi… male che vada, ci si può sempre ricamare su una nuova storia.
“Puoi finger bene, ma so che hai fame…”











kuno, nella prima sua foto, ti ha guardato dentro (o sei tu che ti sei mostrata a lui)
ml
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Può darsi entrambe le cose 🙂
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non li ho fatti io, ma grazie 😊
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