Finchè non ci separi

C’è un preciso punto in Iustitia, il secondo volume tripartito della mia quadrilogia, in cui ho affrontato il tema dei temi. La morte.

Fu indicibilmente difficile. Le parole di quei libri sono state scritte col sangue, lo giuro. Ricordo che provai in tutti i modi ad evitare quella morte. Non riuscivo ad accettarla, da autrice, e cioè dio creatore del piccolo mondo che avevo creato. Ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovare una soluzione alternativa che non rendesse tutto improbabile e banale. Doveva essere così. La storia, per quanto assurdo possa sembrare, esigeva esattamente questo: mi imponeva questa scelta, mio malgrado. Sembrava avere una sua propria volontà, una direzione più saggia di me. A volte, non sempre, ma a volte quando scrivo e sono “connessa”, mi succede così: un dio più saggio di me s’impossessa delle mie dita e del mio cuore, e mi fa dire cose che da sola non avrei potuto concepire. Il libro ha un suo scopo, un suo messaggio, e mi usa per dirsi. Esigeva di essere detto così.

Ero molto infantile all’epoca, non riuscivo ad accettare, proprio come i bambini, il concetto di morte.

Credo sia questa la differenza sostanziale tra adulti e bambini: gli adulti comprendono, grazie al dolore e alla perdita, la necessità della morte.

Cambiare vita, un anno fa, fu una morte. Di colpo ci sono persone che non vedrai più, nomi che non chiamerai mai più. Parole, modi di dire che non userai di nuovo. Abitudini che dovrai cambiare. Figli che non nasceranno, e non con quel nome. Posti che non vedrai. Non con quella persona accanto.

Io stessa, in qualche modo, sono morta. Il mio specchio, gli occhi che mi rimandavano la mia immagine, scandagliandomi nelle viscere, rivelandomi “Tu esisti”, non c’erano più. Non sapevo più chi ero. Non esistevo più, non in quel modo cui ero abituata.

Così, ho dovuto imparare ad esistere. E ho appreso che si può, anche da soli. Che sebbene l’altro sia utile e bello da avere accanto, in solitudine ci sono cose che non fiorirebbero altrimenti. Ho imparato a gioire delle mie vittorie senza dovere necessariamente metterne qualcuno a parte, come se avere uno spettatore rendesse vero ciò che da soli non lo è sufficientemente. Ho imparato una nuova immagine, e a rimandarmela senza specchi. Ho imparato a cavarmela da sola nei momenti più duri, a trovare soluzioni creative per ogni problema, a non perdere lucidità e concentrazione, ad avere fede in me stessa e nelle mie capacità. E finalmente ho capito il valore della morte. Ho cominciato ad accettarla.

Ho scoperto, che “mai più”, superato il dolore del cambiamento, si trasforma in “da adesso”. Da adesso, tolto di mezzo ciò che c’era, in quel nuovo spazio puoi metterci cose nuove, nuovi inizi, novità di vita, bellezza, movimento, stupore, conoscenza. La staticità è un attributo della morte, ho letto una volta; la vita è movimento.

Il seme deve imparare a morire come seme, per poter germogliare. Il pulcino deve imparare a morire come pulcino, per diventare adulto.

Tutto ha senso solo perché esiste la morte. Senza, non avremmo fretta nè calma, nè priorità e saggezza. Senza non avremmo la vita, perché il senso della vita è che ci sia la morte, e quello più vero della morte è rinnovare la vita: rimuovere il vecchio, farle spazio, permetterle di fluire nuova e giovane, dalle ceneri di quel che è stato. Senza la morte, la verità è che non sapremmo che farcene della vita: non avrei avuto lo scatto di reni che ho avuto un anno fa. Non avrei avuto la fretta e la determinazione che ho ora di realizzare il mio piano. Ti dai una mossa, nella vita, proprio quando (profondamente) sai che non è per sempre. Cerchi di farlo con saggezza, e cioè con tutta la tua forza, tutto il tuo cuore e tutta la tua intelligenza.

La morte è l’unica certezza che abbiamo, e la certezza che siamo tutti uguali, alla fine. La certezza che tutto avrà una fine. Che per questo vale la pena impegnarsi al massimo, non perdere nemmeno un giorno di tempo, e suggerlo, come fosse una sorgente nel deserto, succhiare il midollo della vita ogni singolo giorno come fosse l’ultimo.

Ad inizio anno ho fatto un sogno curioso. Ho sognato una donna che non conoscevo ma sapevo per certo essere morta. Era serena e risoluta, abbiamo parlato di molte cose. Di alcune che avevamo in comune, ad esempio. Purtroppo molte cose al risveglio le ho dimenticate. Ma credo che l’essenziale mi sia rimasto. Ed è stato allora che ho capito che la morte non mi fa più così paura. Non dico di desiderarla: mai come ora ho desiderato immergermi nella vita, ma forse proprio per questo ho smesso di temere la morte. Ho affrontato di tutto, e sono ancora viva. Ho amato, sono stata amata, ho vinto, ho perso, mi sono esclusa dal mondo e mi ci sono immersa di nuovo, ho scommesso, ho iniziato e ho finito tante cose.

Quella morte nel mio libro, per quanto ingiusta, difficile e pesante da raccontare, come fosse stata vera, era “giusta” in un senso più ampio. Era necessaria. Ad apprendere qualcosa di nuovo. A crescere. A far spazio a qualcos’altro. L’ho capito solo dopo.

E’ vero, la fine di certe cose sembra un’ingiustizia, sempre, ai nostri occhi infantili e limitati. Ma che ne sappiamo noi? Cosa mai possiamo saperne di quel disegno troppo più grande e più saggio di noi? Cosa mai possiamo capire, senza la visione d’insieme, del senso ultimo del “mai più”?

Una delle nuove cose che ho imparato a fare. Uscire. Scoprire posti nuovi, portarci i miei libri. Meditarci.

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