
Mi ha sempre affascinato la storia delle parole. Ripercorrerne l’origine, scoprire le somiglianze coi lemmi di altre lingue, i significati acquisiti e quelli persi nel tempo. Il suono. Il mio ex mi ha insegnato, tra le altre cose, l’importanza del suono delle parole. Lui era uno studioso di poesia e di Dylan Thomas, poeta gallese morto giovane e, presumibilmente, disperato, ma appassionato narratore del suono delle parole. Il suono delle parole è ciò che, forse, sta all’origine del linguaggio, e del significato “magico” del loro uso: le cosiddette “formule magiche” probabilmente si basavano sugli effetti, le vibrazioni che certi suoni di certe parole potevano generare se pronunciate in un certo modo, con un certo spirito. E’ questo, anche, il motivo per cui in alcune forme di meditazione si recitano i mantra: suoni che producono effetti. E non voglio allungare il brodo facendo riferimento a cose che gli scientisti più quadratamente accaniti deridono dall’alto della loro arroganza, e i new age più radicali difendono con modi, toni e atteggiamenti fanatisti che giustificano il ridicolo…

Tuttavia, mi limito a dire che tra suono e spirito delle parole esiste un nesso. Ci sono parole che fanno male, davvero, e altre che fanno bene. E ci sono parole bellissime da conoscere, anche solo per poterne apprezzare, assaporare a fondo il senso. Come ad esempio la parola “donna”. La nostra versione italiana viene dal latino “domina“, signora, padrona, la padrona di casa: una parola che evoca dignità, una testa alta, ma anche responsabilità, la cura della casa e di tutto ciò che vi è racchiuso, persone comprese. Colei che decide, ma insieme al suo dominus (di cui ha conquistato – padrona – il cuore). Riuscite a sentire il suono deciso, solido, materico e pregno di questa parola? Poi c’è anche mulier, da cui moglie, presa proprio nel suo ruolo, ma in modo più delicato, orizzontale, soave, vagamente sensuale, al fianco del vir, una delicatezza che si avverte nella palatale dolce “elle”. Tuttavia la radice più antica, di origine indoeuropea, è gen, da leggere come “g” dura, da cui gynè, gynaikos, donna in greco, e quindi ginecologia, gineceo, ma anche generare, progenie. Dalla stessa radice viene gygnomai, verbo greco che sta per essere, ma anche divenire, accadere. E se si va ancora più a ritroso, si scoprirà che gen in realtà è vicinissima a un’altra radice alla base del nostro linguaggio: gwi, da cui bio, zoe, vita, vivente. Un suono leggero e delicato, ma fresco, vibrante, frizzante, come il cinguettio di un uccellino, eppure pieno di energia, di quel che racchiude che è tutto: la vita.

Questa è la meraviglia racchiusa nel suono dedicato al significato “donna”: colei che ha in sè il codice della vita, che dà la vita, che permette il perpetuarsi, il divenire degli eventi, della storia, della specie. Colei che genera, che nutre, che rinnova, che è seme del cambiamento per diritto e dovere fisiologico e anatomico. Laddove le regole, la forza, i paletti e i punti fissi li mette l’uomo, uomo in grado di finire, di uccidere quando lo ritiene necessario, di decidere, intraprendere, imporre e agire, la donna va oltre, e dà la vita, in un continuum di compensazioni e sinergie maschio femmina.
Donna che è quindi acqua, liquido, parto, figli, vita; ma anche fuoco purificatore, emotività e passionalità, luce di saggezza, determinazione, lotta per la difesa dei propri cari; terra, cura, accoglienza, gentilezza, nutrimento, fiori, colori, comunione solidale, amore e cibo; aria, sogno, notte, luna, intuizione, ispirazione che va oltre le regole.
Molti nomi sono nati per ricordare, solo col suono, tutti questi significati: Guenda, Guendalina, Wendy, Gwyneth, Arwen de Il Signore degli Anelli di Tolkien, ecc. Io stessa ho coniato una parola, rwenod, usando questa radice per indicare nei miei libri una categoria di donne per eccellenza, una sorta di “setta” o ordine al femminile dove dare spazio anche alle degenerazioni che, come in tutti gli estremismi, snaturano il senso buono e originario delle cose.

Ma vorrei, soprattutto, che il senso di questo post sia questo: riscopriamo il senso autentico delle parole. Ogni anno ci ritroviamo a leggere sempre le solite cose, da un lato chi l’8 marzo dà sfogo a sviolinate ipercaloriche al limite del diabete e dall’altro chi veste l’usuale e noioso (stantio, direi) ruolo del criticone ad ogni costo con la solfa “Non fateci gli auguri oggi, ma tutti i giorni, ecc“, che avrebbe un senso se non avesse sempre questo tono polemico, lagnoso e, come dicevo, ormai scassaminchia all’ennesima potenza… ovvero: non siate acide, donne. Non si addice al significato della vostra parola. E se vi illudete che fare le acide superiori che snobbano omaggi floreali e festeggiamenti sia femminismo, allora aveva ragione la mia maestra delle elementari: tutte le parole che finiscono in “ismo” hanno qualcosa di malato. Qualcosa che degenera, snatura e, in questo caso, completamente stravolge, vanifica e uccide il senso originario del termine.
Trovo sia bello, purché autenticamente sentito, celebrare la femminilità e la fertilità (in senso lato) dell’essere umano formato donna. Azzeccatissimo in questi giorni che anticipano l’equinozio di primavera (e non è un caso: tutte le feste hanno origini pagane e naturali, nonostante gli eventi storici in mezzo). Questa è la stagione dell’anno donna per eccellenza, in cui la terra è più fertile, rigogliosa, dà frutto, e ci nutre. Perché non celebrare la delicata forza della donna? Purchè, come dicevo, sia sentito. E perché non accettare tale omaggio? Certo, non è un invito a mettere la testa sotto la sabbia, a rinunciare alle lotte, ecc. Trovo sia altrettanto stupido approfittare di questo giorno per dare sfogo in modo orribilmente nevrotico agli istinti repressi, andando in giro a fare le “donne” dai costumi discutibili non tanto per celebrare il proprio significato, quanto per sfogare gli impulsi sessuali più bassi e volgari che a casa, evidentemente, devono tenere sotto chiave per vari motivi (da quelli oggettivi – mancanza di materia prima? O la materia prima c’è ma non collabora? – a quelli più soggettivi – sensi di colpa? Inibizioni e giudizi soffocanti, chè l’abitante di Troia che in te non la vuoi esprimere ma la vedi ovunque nelle altre?).

Trovo che prendiamo troppo sul serio cose stupide, e troppo poco sul serio cose fondamentali. Trovo che omaggiare la donna con un fiore simbolo di questa stagione sia semplicemente carino, una specie di ringraziamento tardivo per essere qui, nati, perché nessuno di noi sarebbe qui a far minchiate, alieni o terrestri, senza la donna.
E trovo che sarebbe altrettanto giusto celebrare anche l’uomo, la sua virilità e la giustezza del suo ruolo, dello spirito del maschile (che si completa, esprime e fonde nel femminile) nell’ordine delle cose. Trovo, cioè, che dovremmo rilassarci un po’ tutti quanti, prendere le cose con più leggerezza e serietà, tornare a fare quello che ci piace in modo piacevole, e ad accettare la gentilezza in modo accogliente e gentile. E smetterla di assumere maschere e ruoli perché va tanto di moda farlo: basta col cinismo e il sarcasmo per sentirci più furbi e fighi. La donna non è questo. La donna è altra cosa, dovrebbe amarsi e riscoprirlo: ne gioverebbero senz’altro le donne, che sarebbero meno acide e frustrate acca ventiquattro, e gli uomini, che se ne vedrebbero molto meglio.
Involontariamente, un anno fa l’8 marzo (l’8 m’arzo, in senso romanesco letterale) cambiavo la mia vita: mi alzavo dal letto che era la mia tomba, e mi facevo, con mani che non sapevano non tremare, una valigia che mi ha portato fin qui. Non sapevo sarebbe stato il personale regalo della mia essenza di donna, capace di rinascere, di fluire e fiorire, anche se tardivamente. Sono una late bloomer, così mi chiamava il mio ex. E la primavera d’ora in avanti sarà ricca di floridi significati, qualunque cosa il mio singolare destino voglia ancora mettermi sulla strada. Sono felice di essere donna. Sono grata alla mia natura fiera e indomita, alla mia vulnerabilità e delicatezza, e so che in questo mix risiede il segreto della mia forza.
