Guardarsi con gli occhi degli altri è un utile strumento di Lavoro.
Che non vuol dire guardarsi come noi pensiamo che gli altri ci guardino. Bensì come realmente oggettivamente lo fanno.
Una cosa tutt’altro che semplice. Che a volte smonta le nostre paure e idiozie; a volte invece ci mostra scomodissime verità.
Sempre, ci mette in contatto con qualcosa di oggettivo. E di sicuro fa uscire dalla zona comfort, che lo si voglia o meno.
Sono stata oggetto di foto per diverse persone, più o meno professioniste, come ho già avuto modo di raccontare qui.
La prima volta è stato una decina d’anni fa. Questa è una foto di allora.

Odiavo essere fotografata. Almeno quanto detestavo vedere la mia immagine riflessa in qualunque superficie riflettente. Da adolescente, intorno agli undici anni, fino a dopo i sedici più o meno, non mi sono guardata allo specchio praticamente quasi mai. E se avessi potuto sparire dallo sguardo, la coscenza e la memoria anche degli altri, sarebbe stato perfetto.
Poi con l’università è andata un pochino meglio. E quando ho conosciuto Lui, (Il-Lui-dei-dieci-anni), di sicuro sono un po’ cambiata.
All’inizio, quando mi fotografavano, provavo una sorda frustrazione: quella di non riconoscermi affatto nelle foto. Specie se fortemente postprodotte, cioè alterate nel processo di rimaneggiamento della foto: contrasti esasperati, cupezze non realistiche, colori acidi o eccessivamente freddi. E non avevo libertà di scelta sull’angolazione, la postura. Non ero io. Non avevo libertà di essere io, e non sapevo nemmeno di poter avanzare pretese.
Ma quando sperimenti più fotografi, capisci anche il disagio del completo opposto: quello che non sa assolutamente cosa fotografare e come. E tu stai lì, come una cretina, tutta agghindata a festa esattamente come la scimmia che balla, e devi cercare di essere credibile, e non banale, e nemmeno realisticamente idiota nelle pose e le facce che fai. Troppa libertà, senza una direzione equivale a non averne affatto. Frustrante anche questo.
Trovare la giusta alchimia è dura, ed è ciò che differenzia un vero fotografo da un igers della domenica. La relazione: stabilire una relazione tra l’occhio che guarda e quello che di riflesso viene guardato. E nella foto capisci che sì, c’è finalmente un po’ di te. E anche di chi ti ha fotografato. C’è quello che voleva vedere, che ha visto senza accorgersene, e quello che tu hai deciso di mostrare. C’è la tecnica, i tempi, il diaframma, le luci, la composizione. E c’è il fato, la fortuna, il caso, il filo di vento che non ti aspetti.
E c’è il guizzo, quell’attimo in cui chissà chi, di tutti quei personaggi là dentro, ha deciso di fare capolino per mostrarsi, mostrarti, un altro pezzetto.
Questo mi affascina della fotografia.
Tutto il resto (la terapia, essere guardata, non essere guardata, la dermatite, gli attacchi di panico, l’insonnia, i tremori, le fobie, ecc ecc ecc) sono sacrosante superflue banalità.
ps. Domenica e oggi sono stata oggetto di fotografia, di nuovo, per un corso di Ritratto a Bari. E’ stata dura, durissima anzi (da restare a letto un giorno intero, con le budella ritorte, e non esagero), ma nondimeno utile, come sempre. A cercare di mettere in pratica il Lavoro innanzitutto. Un Lavoro preziosissimo. Ma devo dire che le persone che ho conosciuto (i fotografi sono prima di tutto persone) mi hanno colpito. Mi ha colpito il loro essere umani, il loro mettersi in gioco, il loro cercarmi e cercarsi. E’ stato particolarmente intenso, e ricco. Non sono una donna molto facoltosa (anzi) ma in questo momento mi sento ricca.
La Vita è stata ed è molto generosa con me. Mi ha fatto conoscere cose e persone non tanto in quantità quanto in profondità. E di tutto ciò che mi ha portato mi sento profondamente grata.
