Dottò

Così mi apostrofa Prof (un personaggio della mia recente vita di cui un giorno parlerò ammodo) quando ha uno dei suoi malanni. Cioè sempre.

“Dottò, sto raffreddato. Che posso fare?”

Eh. Che posso fare. Te l’ho detto già un miliardino di volte che puoi fare, ma da quell’orecchio non ci vuoi sentire, quindi che te lo ridico a fare? I dolci te li dovresti scordare, così pure le schifezze varie, i paninazzi assurdi, i fritti ecc ecc ecc.

VI-TA-MI-NA-CI” scandisco tipo filastrocca per bambini.

Ma non quelle cose da maghi stregoni. Una cosa seria

E si beve una spremuta d’arancia, anche se gli ho appena detto che è un frutto, quindi pieno di zucchero, e non è esattamente un toccasana, checché la medicina cosiddetta ufficiale ne dica. Ma lui se la beve lo stesso. A questa, in genere smetto di rispondere. E sorrido a trentadue denti. Ma Prof è giovane: prima o poi capirà.

Sì, la mia anima “medica” coesiste con quella “narratrice”. Come vi ho già accennato, ho un piano, in proposito. Un piano pazzoide e molto sui generis (e come potrebbe essere altrimenti?), ma ce l’ho. Mi sto muovendo esattamente in quella direzione e, ve lo dico, la vita mi sorprende sempre più ad ogni passo.

Ho iniziato a coltivare la mia anima medica nel lontano 2003. Anno in cui entrai nella Facoltà di Medicina e Chirurgia di Bari, con un ottimo punteggio tra l’altro. E avrei voluto vedere: mi ero fatta un deretano così a studiare tutta l’estate. Del resto la mia passione per la biologia e le neuroscienze, e poi la fisiologia, la patologia e l’antropologia hanno segnato la mia forma mentis. Mi hanno insegnato un metodo, prima ancora che delle nozioni. E credo sia colpa di quello stesso metodo se poi sono entrata in feroce conflitto con la “medicina ufficiale”, la cosiddetta medicina allopatica. Ricordo che ero qui, in questa stessa stanza, a guardare fuori da questa stessa finestra, studiando per un esame che devo ancora dare, di una branca che mi affascina come poche: Reumatologia. Una branca giovane della medicina internistica, che a prima vista inganna (reuma = dolori articolari) ma nasconde insidie, misteri, affascinanti collegamenti che non immagineresti… un romanzo d’avventura, un giallo, un thriller quasi. Ero lì, con gli appunti indecifrabili presi a lezione, e facevo un banalissimo ragionamento.

Com’è, mi chiedevo, che malattie così diverse, così opposte, e così complesse, come ad esempio l’Artrite Reumatoide e il Lupus Eritematoso Sistemico, stiamo qui a svicerarle nel dettaglio, sul come e perché probabilmente ipoteticamente si possono sviluppare per decine di pagine… e poi curiamo tutto col cortisone (?), che non è nemmeno esattamente una passeggiata di salute come farmaco. Mi pareva come se per tutte quelle pagine e pagine e pagine si sviluppasse una specie di affresco meraviglioso, tipo quelli di Pompei, e all’improvviso arrivasse una colata di banalissimo bianchetto. Non so se rendo l’idea. Com’è possibile, mi chiedevo non capacitandomene, che all’improvviso, senz’appello, ti viene diagnosticata una cosa così e il massimo che puoi fare è metterci una pezza che più arraffazzonata non si può…?

No, non me ne capacitavo. L’immagine più vivida e realistica che allora avevo in mente era questa: la salute e la malattia sono una stanza buia, e noi, poveri diavoli, ci avventuriamo lì dentro alla luce di un misero lumicino con l’arroganza di chiamare quel che ci è dato di intravedere VERITA’.

Perché io non sono mai stata capace di studiare come facevano gli altri. Dovevo farmi domande. Sviscerare i misteri. Sondare a fondo laddove le cose non mi quadravano. Così mi avventurai in altre stanze. Di mia spontanea volontà cominciai a studiare medicina cinese, ayurveda, e studi antropologici delle società tribali, e più studiavo più mi rendevo conto che la questione salute/malattia era molto più complessa e radicale di quanto noi medici occidentali cerchiamo, semplicisticamente, di sintetizzare. C’entra la tua vita intera. C’entra la tua alimentazione, i traumi, gli affetti, lo stile di vita, come dormi, come pensi, l’attività fisica… e a voler andare più a fondo, c’entra il tuo momento. Adesso. C’entrano i tuoi demoni, i conflitti irrisolti, la bioenergetica, la psicosintesi… e per finire, il senso della vita stessa.

Ora, una volta che cominci per questa strada, tornare indietro e far finta di niente è difficile. Ed è difficile discriminare il corretto dall’errato, il plausibile dall’inconcepibile, l’utile dal superfluo. E’ molto difficile, specie avendo un background di “scienziato meccanicista” come ce l’avevo io.

Il primo anno di Medicina avevo la media del trenta, tutti gli esami in regola, e all’ultimo, essendo stata, a detta della commissione d’esame, particolarmente brillante, mi proposero di entrare nel loro laboratorio di ricerca, in qualità d’interna. Era un sogno che diventava realtà. Microscopi, cappe aspiranti, e vetrini: ero eccitata, entusiasta, affamata. Divorai il laboratorio e i suoi segreti nei successivi quattro anni, grazie a un team di lavoro da sogno: i miei prof erano la squadra di cervelloni che aveva curato l’edizione italiana del Gray’s Anatomy, il testo di anatomia più famoso e studiato al mondo ben prima che Meredith Grey ci facesse innamorare del dottor Shepherd. Non so se mi spiego. Lavoravo col cervello, e ci scrissi un pezzo su, all’epoca, intitolato così: studiavamo la struttura della barriera ematoencefalica, quella cosa insomma che protegge il cervello dalle eventuali schifezze che possono stare nel sangue. Lavorai come una matta, e insieme studiavo; in breve mi guadagnai la stima e l’amicizia della prof capa boss, come la chiamavo io. Una donna che aveva (ed ha tutt’ora) il mio amore e gratitudine incondizionati, per il valore umano, professionale, la totale dedizione ed umiltà nel lavoro che non ho mai visto in nessun altro, nè al Policlinico nè fuori.

Facevo addirittura laboratori di Istologia umana per i bimbini del primo anno. Poi cominciò la crisi, al quarto anno, e al sesto il crollo totale: un crollo fisico, nervoso e psichico da cui, come ben sapete, mi sono ripresa pienamente solo un anno fa.

Negli anni, avanzando man mano l’anima narratrice, mi sono più volta chiesta se non sarebbe stato meglio cambiare corso di studi, mollare o che so io. Certo, “stare tra due sedie”, e cioè in una grigia terra di mezzo dove non sei più quello che eri, che hai rimesso integralmente in discussione, ma non sei ancora nemmeno quel che sarai, perché non hai avuto il tempo e il modo di chiarirti dove e come piantare le nuove radici… in quel limbo è davvero scomodo stare. Ci sono stati periodi in cui avrei preferito morire, e l’ho quasi fatto.

Ma credo che l’amore per la vita, i suoi misteri e le sue meraviglie, l’amore per la bellezza che, nonostante tutto, c’è e vince sempre, credo che questo mi abbia tenuto in vita, come una specie di flebo di sopravvivenza per malati terminali.

E ora che ho le idee ben chiare su dove voglio arrivare e come, ora so che tutti questi anni mi sono serviti tutti, non uno di meno. Tutto ciò che ho studiato e scritto, tutte le domande che mi sono posta, tutti i miei dubbi e la mia instancabile curiosità, tutto il mio dolore e gli sforzi e le letture per comprenderlo, superarlo, la mia forma mentis… tutto è servito perché arrivassi qui, a formulare il mio piano. Sarò un medico un giorno, coi miei tempi e a modo mio, ché (c’è bisogno di dirlo?) di certo non sono e non sarò mai un medico normale. Non mi serve esserlo. Sarò un medico bioenergetico e psicosintetico, e anche se non capite un ciufolo di cosa voglia dire, l’importante è che lo sappia io.

Quel che è certo è che ora la scrittura mi sta dando da vivere, e in un modo che non avrei immaginato. Inoltre, proprio perché adesso lavoro, e posso cioè pagarmi tutti i conti, la medicina è diventata non più un dovere, ma una vera passione: ne sento il bisogno, e una malinconica mancanza se certi giorni sono troppo stanca per studiare. Ma ho voglia di farlo; a 35 anni ho riscoperto la passione e motivazione che avevo a 20, ed è bellissimo. Certo, mi sta costando un po’ di sacrifici, ma sono felice di pagarli.

Questo ho detto due mesi fa, in una lunga lettera che ho scritto ai miei e ho letto affinché fossero finalmente consapevoli di che diavolo stessi facendo della mia vita. Ho dovuto scriverla perché temevo che a voce non sarei riuscita a dire tutto quel che avevo da dire a riguardo, nel preciso modo in cui intendevo dirlo. Ne sono rimasti sorpresi. Mio padre s’è ammutolito del tutto. E mia madre aveva i lucciconi, alla fine. Ma poi mi ha abbracciato stretta, e mi ha sussurrato “Oggi mi hai resa davvero orgogliosa di te“. E anche se, dopo tutto il percorso che ho fatto, il suo orgoglio non ha più così tanto peso come poteva averlo un tempo, devo dire che non è male sentirselo dire.

Ho capito che comunicare, troppo spesso, è sottovalutato. Che la stragrande maggioranza dei nostri demoni sono per lo più nella nostra testa, e li proiettiamo ovunque, su chiunque, sempre e comunque. E ho capito che se ti metti sulla strada, la tua propria strada, quella allineata alla tua essenza, non importa come, ti porterà esattamente dove devi, senza sforzo alcuno. Dio stesso, il dio della tua essenza, ti prenderà per mano e quel giorno, compensando ogni singola precedente tribolazione, ti benedirà spalancandoti le porte del tuo destino che tu in persona ti starai scegliendo.

Sono il padrone del mio destino, il capitano della mia anima” recitano i versi di Henley.

E dimentichiamo troppo spesso il vero profondo significato di queste parole. Credo che il mio destino più vero sia di essere terapeuta, e in qualche modo non convenzionale lo sto assecondando.


2 risposte a "Dottò"

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