La gentilezza si impara

Un mesetto fa mi capitò un fatto curioso: era notte e tornavo a casa da un’uscita. Passando per Conversano, quasi sulla via per Turi, vedo un ragazzetto pelle e ossa che si avvia a piedi. Appena mi vede si ferma e sporge il pollice per l’autostop. Non so se ero più divertita o sorpresa.

In una frazione di secondo le reazioni sono automatiche e l’istinto di passare oltre è più forte; ma appena lo supero, lo fisso nello specchietto retrovisore e lo vedo scrollare le spalle sconsolato e riprendere a camminare. Arreso. Allora mi fermo di botto, e faccio retromarcia.

Lo so, i miei amici dicono che sono troppo ingenua; lo sono stata, lo confesso vostro onore, a livelli quasi di idiozia indubbiamente colpevole. Ma stavolta è stato diverso. Ho scelto di fermarmi e caricarlo in macchina; avrei potuto far più male io a lui, ve l’assicuro.

“Hai idea di quand’è stata l’ultima volta che io abbia visto un autostop?” gli ho chiesto “Credo in un film degli anni 90′”

“Mi dispiace darle disturbo SIGNORA” mi ha risposto il pivello contrito, che solo per questo ha rischiato di ritrovarsi scaraventato fuori nella notte.

Il pivello ha diciott’anni freschi appena compiuti: in effetti, potrei essere sua madre. Cerco di ignorare la sensazione di sentirmi più vecchia del dovuto e ascolto la lacrimevole storia. Era stato ad una festa di compleanno; aveva calcolato di prendere un autobus per tornare, ma il maledetto gliel’aveva fatta e non era passato. Lui, che in effetti un po’ pivello doveva esserlo, non aveva un piano B, e l’alternativa a me era farsela a piedi. Undici chilometri in aperta campagna al buio e alle due di notte. Ci credo che sarebbe stato disposto a pagarmi la benzina o qualunque altra cifra gli avessi chiesto.

“Facciamo la stessa strada” ho riso “Non serve”.

Per tutto il tragitto mi sono chiesta perché mi sono fermata. Mi faccio queste domande che possono sembrare oziose, ma è per sondare i motivi profondi. Naturalmente conoscevo la risposta, ma saggiarla ogni volta è una specie di dovere.

Una parte di me stava, come gli altri automobilisti prima di me, passando oltre.

“Hai fatto male i conti, bello? Che ci vuoi fare, è la vita: è dura per tutti. Prima lo impari, meglio è. E poi chi ti conosce? Chi mi dice che sotto quell’aspetto da bravo ragazzo sfigato non c’è un serial killer esperto di arti marziali che mi addormenta prima che io possa dire “A”? Bravo, fai come noi: fattela a piedi. Un’altra volta ci penserai due volte prima di andare a una festa senza passaggio… Se sei fortunato, ti caricherà qualcun altro”.

Un’altra parte di me, invece, si è fermata e ha fatto marcia indietro facendogli con la testa “Sali, prima che ci ripensi”.

“Sì, la vita è dura, è vero, ma non sarò io a rendertela più greve. E poi, dalla faccia che hai, direi che hai ampiamente imparato la lezione. Ingenuo lo sei stato, e come tutti noi è una colpa che non ti perdonerai; ma non voglio che il tuo cuore si inaridisca da subito, da adesso. Non voglio che tu pensi che essere adulti voglia dire essere anche stronzi. Voglio che un giorno ti ricordi che qualcuno si è fermato, e ti ha caricato a bordo anche se non ti conosceva, solo perché andava nella tua stessa direzione, e non ha voluto fartela fare a piedi alle due di notte; solo perché i tuoi occhi erano sperduti e innocenti, e fossi stata tua madre non avrei voluto darti una simile lezione qui così.

Anche a me è capitato di essere stupida, e sapessi quante volte succede ancora. Anch’io non me lo perdono. Eppure ho trovato gente che mi ha perdonata al posto mio e la mano me l’ha tesa tante volte, specie nei momenti più critici. Forse un giorno toccherà anche a te, perché il tuo cuore non si è ancora indurito, e ora hai visto come si fa. La gentilezza si impara: è un dono prezioso, va dispensato in modo accorto, per pochi intimi che la meritino. Spero la serberai con cura, astuto come un serpente ma ancora puro come una colomba. Ora sai come si fa”.

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