Se Dio Vuole

Ricordo con estrema nettezza quando è finita la mia infanzia: erano i primi di settembre del 1994. Iniziava il mio triennio delle fatidiche scuole medie, quelle scuole nè carne nè pesce di passaggio, in cui iniziano le prime devastanti crisi di identità adolescenziali. A posteriori, ricordo che la sensazione fu quella di essere una specie di agnello sul nastro trasportatore che lo porta al macello. E così fu.

Un mattatoio di speranze, illusioni, gaiezza e bellezza (sì, la bellezza era qualcosa che in quegli anni imparai a coltivare in segreto nella mia stanzetta, dove sapevo che nessuno avrebbe potuto infangarla). Non so se le responsabilità furono più degli adulti inconsistenti che avevo intorno all’epoca, o dei miei coetanei, animali allo sbaraglio senza morale nè argine alcuno, variegati dai lupi famelici alle pecore imbelli. Fatto sta che, sempre a posteriori, posso dire che in quegli anni conobbi ogni genere di bruttura, e sì, anche la depressione. A undici anni non si dovrebbe sapere cosa sia la depressione.

Non fu solo il fatto di essere brillante e sensibile, di imparare a dovermi vergognare per questo, per la pochezza, la mediocrità, e la volgarità dei miei coetanei che non potevano sopportarlo: dovevo reprimere l’impulso di alzare la mano quando sapevo una risposta; inibirmi quando il mio vicino di banco copiava spudoratamente, e lasciarlo fare per quieto vivere; provare imbarazzo quando il mio voto spiccava sulla media dei restanti; far finta di non avere quella gaia curiosità per il sapere che fin da piccola avevo sempre avuto, e che la stima in me dei professori incoraggiava (alle elementari non godevo di altrettanta stima). No, non fu solo questo.

Non fu solo il fatto di essere, ovviamente, bersaglio del bullismo del capetto sadico di una banda di pecore al suo seguito, con conseguenti isolamento, dispetti, derisioni davanti al pubblico ludibrio e “agguati”. Per anni ho avuto il terrore di camminare sola per strada, guardandomi costantemente le spalle per paura di incontrarli, e nessuno si è mai chiesto come mai preferissi l’ingresso di scuola sul retro, quello dei professori, e non quello del pubblico, sul fronte. No, nemmeno questo.

Ogni giorno al cambio d’ora e alla ricreazione, quello era il momento di tenere lo sguardo basso sul banco e sperare che si dimenticassero della mia esistenza; ogni santo giorno, quelli erano i momenti in cui noi sulla lista nera del capetto e la sua banda, eravamo le vittime sacrificali predilette sull’altare dei loro sfoghi animali. E grazie a Dio, il mio banco (non a caso) era l’ultimo a destra, in un angolo seminascosto, dove lo sguardo basso spesso mi risparmiava la gogna. Spesso, ma non sempre.

Altri erano su quella lista. Un ragazzone enorme, un bonaccione dal cuore grande e mani come racchette da tennis: lo prendevano sotto in quattro o cinque e lo riempivano di botte da orbi, insulti e ogni sorta di “scherzo”. Spesso giocavano al bersaglio: il cancellino era la freccetta. Trovavano divertente scaricarglielo addosso dalla lavagna, bello zuppo di gesso bianco. Ridevano in molti, anche quelli non della banda. Soprattutto quelli. A me si rivoltavano le budella di bile. Non ricordo bene, perché per molti anni ho rimosso dalla mia memoria ciò che ho visto e vissuto in quel triennio, ma almeno una volta credo gli abbiano abbassato pantaloni e mutande in pubblico. Suppongo che anche qualcuno tra voi lo possa trovare divertente. Spero comprenderete se ciò mi agghiaccia.

Poi c’erano due ragazze. A loro andava anche peggio. Regolarmente le accerchiavano, denudavano e toccavano nelle parti intime, davanti a noi, e ridevano. Simulavano amplessi che per fortuna non avvenivano. Ma in quei lunghissimi momenti poteva accadere di tutto; avevi la sensazione che in quel regno il re aveva pieni poteri, su chiunque, e noi zitti dovevamo subire e basta. C’erano anche delle ragazze che spalleggiavano il re; il più delle volte ridevano, sadiche anche loro. Qualche rara volta, venivano prese sotto anche loro, e stavano zitte anche quelle volte. Solo frignavano un po’ col capetto: ma come, ti lecchiamo il culo per avere l’immunità, e ci tratti come quegli altri? Sembravano protestare. Allora il capetto si riprendeva, riconosceva che il leccaggio di culo doveva pur fruttare un qualche vantaggio, e ricordava di doverle trattare con riguardo.

Il capetto mi odiava; glielo leggevo negli occhi spesso. Odiava il fatto che io sapessi le cose; e anche il fatto che a volte io non abbassavo lo sguardo. Ricordo una volta che venne a urlarmi in faccia di abbassarlo; ricordo l’onda d’urto della sua voce sulla mia pelle; ricordo la paura che provai. Ricordo l’odio che a mia volta ho provato. Ricordo anche quella volta che uno della banda, sghignazzando, venne a sedersi al posto vuoto accanto a me un giorno che la mia compagna di banco non c’era. Ricordo gli sguardi degli altri della banda, i segnali di pericolo c’erano tutti. Ricordo che mi mise una mano sulla coscia e io, con forza, riuscii ad allontanarla.

Ricordo anche che a volte coi professori si tentava di protestare, denunciare: parole fiacche e sterili. La classe omertosa abbassava lo sguardo e restava muta. Quella è stata la prima volta nella mia vita in cui ho capito dal vivo il significato della parola omertà, e anche la prima volta in cui l’ho odiata di un odio feroce e indescrivibile. Odiavo la vigliaccheria dei miei compagni, la loro superficiale stupidità. Certo eravamo solo ragazzini, e ognuno pensava a salvaguardarsi, chè ad alzare la testa e la voce ci sarebbe stato solo da pagarne il prezzo. Perché magari entro le mura di scuola una legge si poteva invocare (e anche quella fallì), ma fuori da quelle mura sarebbe stata lotta per la sopravvivenza secondo la brutale legge del branco e del più forte.

Ciononostante, li disprezzavo tutti; e ad essere sincera, continuo a disprezzarli.

Turi negli anni 90′ era un paesotto piccolo borghese di provincia. Una provincia anni luce distante dalla modernità e l’apertura. Una specie di grigia prigione borghese richiusa su se stessa e la sua stolida ottusità, dove nessuno voleva sapere, nessuno voleva vedere, bastava che gli allori sociali brillassero di luce propria a coprire il marciume sottostante: chiunque avesse avuto un minimo di buonsenso e giovinezza avrebbe fatto i bagagli per scappare lontano. Ma io ero adolescente, ostaggio della mia età e amaro isolamento.

Non avevo amici in quegli anni; nessuno voleva arrischiarsi a frequentare una sulla lista nera. E se qualche compagno di banco talvolta mostrava atteggiamenti amichevoli, imparai anche che allo spirare del vento ti si rivoltavano contro peggio di quegli altri, usando le tue confidenze per accapparrarsi il benestare dei capetti, o deridendoti insieme a loro, per garantirsi la loro immunità. Un microcosmo dove ho imparato sul campo le leggi psicologiche che governano i nostri quotidiani comportamenti sociali, insomma. Non avevo spalle su cui piangere quindi, né scambi di vedute, né persone di cui fidarmi.

Tornavo a casa terrorizzata, stressata, disgustata e angosciata, ogni singolo giorno per tre anni. Una specie di pena da scontare per colpe che non ricordo di aver commesso. Ricordo che l’ultimo anno di scuola feci un conto alla rovescia dei giorni che mancavano a giugno, alla fine della tortura. Ricordo che le feste di Natale quell’anno furono una gioia e anche un calvario: odiavo con tutta me stessa l’idea di tornare in classe il 7 di gennaio.

Tornavo a casa in quelle condizioni, e trovavo adulti stanchi, presi da se stessi e le loro beghe, che non ne volevano sapere di sentire “anche te”; e trovavo adulti che ridimensionavano, ridicolizzandola, la mia “reazione” esagerata a quelle che ai loro occhi erano “ragazzate”.

Per anni ho creduto di essere veramente pazza. Ho creduto che quel che sentivo non era commisurato all’evento in sè, sentendomi inadeguata, sbagliata; per anni ho creduto che i miei istinti suicidi, che talvolta progettavo minuziosamente scartando ora quello ora quel metodo, con rabbia, fossero il malato parto di una mente malata, esagerata, incoerente. Eppure il terrore lo sentivo; eppure il vizio di guardarmi le spalle per strada l’ho avuto per molti anni a seguire; la rigidità in tutto il corpo all’erta a captare il minimo segnale di pericolo; lo sguardo basso per non “innervosire” imprevedibili istinti l’ho tenuto per un sacco di tempo.

Una volta presi un coltello: ero decisa a tagliarmi le vene. Rimasi con quel coltello in mano per molte ore. Una parte del mio cervello avvertiva che farlo solo per punire gli adulti che non sapevano essere adulti, proteggendoci ed insegnandoci, non sembrava un motivo sufficiente per morire.

Ho desiderato la morte come una benedizione, quegli anni. E dormivo moltissimo. Chiudevo gli occhi, immaginavo mondi fantastici, mi rifugiavo nei libri in cui le vite te le puoi inventare e gli eroi hanno il coraggio di affrontare i demoni e vincere. Sorretti da una fede che noi poveri mortali non abbiamo neppure l’umiltà di chiederci da dove gli arrivasse.

A distanza di anni, ho recuperato la memoria di quegli anni, e con essa la mia giustizia personale: il mio corpo aveva ragione. La mia angoscia era legittima. E il mio odio per il sadismo e disprezzo per la vigliaccheria anche.

Per questo ho in odio le ingiustizie. Ho ritrovato la lucidità di comprendere la saggezza del corpo, di ogni corpo: il dono più prezioso in assoluto che Madre Natura ci ha fatto. La legge morale dentro di sé, la cosa secondo Kant più preziosa e sublime al mondo, immensa al pari del cielo stellato sopra di sé: riconciliarmi con la mia legge morale, la cosa giusta da sentire e da fare, con questa pacifica immensità è stata la cura delle mie ferite sanguinanti più balsamica e straordinaria. Una sutura su una spaccatura del mio essere profondo. Quanto io sia grata di questo, alle persone che mi hanno aiutata a recuperarla, a parole non ve lo so dire.

Questa gratitudine che ho nel cuore e lo gonfia, oggi che sono lucida e consapevole, è il motivo per cui ho deciso di restituire qualcosa di ciò che ho ricevuto, aiutando altre persone a riconciliarsi con se stesse e il loro sentire; insegnando, con la mia testimonianza, qualcosa che sento di avere imparato: la mia forza è questa, la mia fede nel mio sentire profondo.

La lava che brucia in gola a questo drago ha sputato fuori le parole dei miei romanzi: capite bene adesso che, per vomitarla a dovere, ho dovuto impiegare davvero tante parole, un numero tale da far tremare le ginocchia alla mia editor. La stessa lava brucia ancora ogni volta che sfioro appena un’ingiustizia.

Ora, da adulta, so che se da un lato è necessario che io resti sempre lucida per comprendere che la rabbia è giusta, ma la sua quantità deve essere “commisurata” al contesto e mai macchiata da quell’acredine corrosiva, dall’altro so anche che in qualche suo modo Dio (o l’Universo, o l’essenza, o quel che vi piace a voi) forse ha voluto farmi dono di una particolare sensibilità, un’esperienza che nella sua sgradevolezza (di cui avrei fatto francamente a meno) mi ha fatto crescere capace di coraggio, intollerante alle ingiustizie, capace di forza di sopportazione anche di prigionie amare, e con l’impeto guerriero per lottare quando serve.

Ecco, forse devo ancora imparare a farmi più accorta, a non mettermi nei guai se proprio non è indispensabile, a misurare parole e toni; a mantenere un profilo basso, via. Ma so che se mi levo di mezzo io, il mio bisogno di sfogare, se sgrezzo le mie proiezioni e i miei vissuti più atroci, se insomma lascio fare a Lui affidandomi al Suo volere completamente, col Suo aiuto la mia rabbia può essere strumento di cose belle, di cura dei luoghi e delle anime abbandonate. Strumento di coltivazione di una pace e serenità che credo sarebbe la vendetta più perfetta che mai io abbia sognato.

Quindi questo 2021 io mi auguro questo: Dio, ti prego, aiutami a mantenere salda la mia fede, mantieni lucida la mia visione. Aiutami a impiegare questa forza dirompente in modo saggio e giusto; aiutami insomma a fare di me un tuo strumento: io per parte mia mi impegno a levarmi di mezzo il più possibile. Sono stanca di arruffarmi senza scopo; voglio filare seguendo il tuo vento, voglio fluire sull’acqua della vita e godermi il viaggio che hai preparato per me, ché il tuo cielo stellato ne vale davvero la pena.

3 risposte a "Se Dio Vuole"

  1. uno spaccato di sofferenze molto forte e comunicativo per il lettore. Questi piccoli ras della scuola, mi piacerebbe isolarli uno ad uno e vedere fino a che punto arriva la loro aggressività, la loro forza di essere capobranco.
    L’età adolescenziale coincide proprio con le scuole medie….ancora oggi leggiamo di fenomeni di bullismo che spingono il malcapitato a gesti estremi….dati i mezzi telematici a disposizione, leggiamo di cyber-bullismo ma la sostanza è sempre la stessa…è come parlare di micro delinquenza ma sono delinquenti a tutti gli effetti.
    Mi spiace leggere un post del genere proprio in questi giorni ma mi piace invece una chiosa così accorata.
    buon fine d’anno e buon principio!

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    1. Sono cose che capitano. Avere a che fare con gli esseri umani vuol dire rischiare di avere a che fare anche con questo genere di umani. Ma sì, per fortuna ho avuto modo di conoscerne altri e recuperare fiducia. In fondo è proprio questo il messaggio che intendevo dare. Come dice Fossati ne I treni a vapore, “Quest’inverno passerà” 🙂

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