Qualcosa dovevo pur fare.
Voglio dire, tutto il giorno in casa o a letto, che due palle. Studiare non ero capace. Ci stavo, mi ci mettevo a forza sui libri, ma in due ore riuscivo sì e no a memorizzare un rigo, e nemmeno bene. Ero diventata di colpo imbecille.
Provavo anche ad allenarmi, e lì ogni tanto ci riuscivo. Ma se mettevo tutto lo sforzo a cercare di restare costante lì, poi dovevo dormire per recuperare tutto il resto del giorno. Bell’acquisto.
Ebbene, nel periodo più monotono della mia vita, le due cose che facevo in abbondanza e volentieri, a parte dormire, erano leggere e scrivere.
Scrivevo i miei romanzi. Cinque parti mostruosi. Come dicevo, qualcosa dovevo pur fare.
Leggevo riviste di arredamento. Cartacee e online. Passavo intere giornate ad abbeverarmi gli occhi di palette di colori, abbinamenti, le regole di questo o quello stile. Passavo le ore a immergermi nella bellezza patinata di luoghi in cui, immaginavo, si poteva essere felici.
Questo mi seduceva dell’arredo per interni perfetto: la recondita sensazione che in un ambiente armonioso, ordinato, caldo e accogliente, un ambiente in cui le forme, i colori, le luci, le ombre e i dettagli erano studiati alla perfezione… in un ambiente così non avrei potuto non essere felice. Su un ambiente così non avrei avuto l’impulso di dormire e tenere gli occhi chiusi. Circondati da un amore solido a forma di consolle o libreria, dalla cura concreta di un posto tenuto con cura, sentimenti di dolore, panico, odio e rancore semplicemente non potevano essere coltivati a lungo.

Il luogo in cui vivi ti influenza, e tu influenzi il luogo in cui vivi. Lo sapevo allora come ora.
Quelle immagini mi calmavano, mi nutrivano in modo balsamico il cuore. Studiavo: come diavolo poteva un cuscino abbinato alla tenda dare quella sensazione di pace? In base a quale criterio? Perché?
E pensavo “Che mestiere divino poter scrivere di arredamento: c’è gente che ci campa! Come hanno fatto? Come fanno a fare questo mestiere? Che bellezza sarebbe poter passare le giornate a guardare foto così, scrivere di cose così e campare immersi in cose così”.
All’epoca non avevo un curriculum, nè titoli e ovviamente neanche il becco di un quattrino in tasca. Campavo della misericordia di mio padre, che pure (a ragione) suo malgrado mi disprezzava per questo, e del mio ex compagno. Non che io mi guardassi con occhi migliori. Ma ero talmente presa dalla missione di trasformare la casa in cui vivevo allora in un nido feng shui che la questione andava nettamente in secondo piano: la mia missione primaria consisteva nel riuscire a sopravvivere a quel periodo marrone, cercando di stare meglio. E per me, per quanto possa sembrare ridicolo, l’arredamento era uno strumento fondamentale alla riuscita della missione.

Quando mi prendeva il demone, e come avrete capito mi prendeva spesso, il mio ex compagno con un sogghigno diceva “Ecco, ci risiamo con l’arredomania”. Era abbastanza indulgente, devo ammetterlo, anche se non certo quanto avrei voluto io. Lo mettevo a cottura, poverino; e pure lui metteva a cottura di frustrazione me, diciamolo. E non ero assertiva neanche un terzo di quel che sono adesso! Tutte le volte che lo costringevo ai giri in Ikea si arrivava sull’orlo del divorzio, ma se non altro alla fine mi si riconosceva che avevo buon gusto: ero diventata arci-esperta non solo del catalogo Ikea e di molti altri brand simili, ma soprattutto nell’arte di arredare con niente. Inteso sia come niente “oggetti” sia come niente “soldi”.
Bazzicavo mercatini, mi piaceva cimentarmi in lavoretti fai da te, riutilizzo di vecchie cose e con niente riuscivo a creare ambienti caldi e accoglienti. Armoniosi, sì. La bellezza era un qualcosa che arrivava dritta al cuore, senza filtri: ti avvolgeva fisicamente, sensorialmente. La comodità, avevo capito, era uno dei fattori più importanti: non te ne fai nulla di un ambiente bello da vedere e scomodo da vivere; la prima cosa per essere felici in un posto è sentircisi a proprio agio. Ma il fattore di bellezza più importante in assoluto è la luce: la luce naturale di giorno, e quella calda, strategicamente piazzata a definire giochi di ombre, di sera.

Tanta, tanta luce: doveva illuminare, scaldarmi dal freddo (e i depressi, assicuro, hanno molto freddo, tutto l’anno). Doveva spalancare la vita e dissipare le ombre. La luce è il motivo principale per cui idee brillanti in partenza concretizzate nel tuo salotto fanno pietà, e che invece nobilita accostamenti semplici, e apparentemente banali.
Avevo sul PC cartelle di (non scherzo) migliaia di foto prese da ovunque, con ispirazioni di accostamenti, stili, per qualunque stanza della casa.
Il terzo fattore importante nell’Arredomania era l’ordine: c’è un motivo se le case asettiche dei cataloghi sembrano belle da viverci subito e per sempre. Sono ordinate e pulite. In luoghi ordinati anche i pensieri sono ordinati, e le azioni, e i sentimenti persino: e, per ordinato, s’intende in equilibrio, in armonia. Ora, una depressa casinista che aveva messo a soqquadro tutta la sua vita, vi assicuro che anela a quell’equilibrio come un assetato nel deserto a un’oasi. Mettere ordine fuori per riuscire a metterlo anche dentro: ci ha scritto addirittura un best seller quella Marie Kondo, e non a caso. Io l’avevo intuito senza i suoi studi, e senza nemmeno essere un’anale ossessiva come lei. No, la pignoleria e l’ossessività non sono mai state una mia prerogativa, ho testimoni che potrebbero provarlo.
Ma amo trovarmi circondata dalla cura, espressa come ordine e armonia: ogni cosa al suo preciso posto, nelle precise proporzioni. Ci sono dei trucchi per arrivarci: il primo non è esattamente un trucco, ed è il più banale, vale a dire aver cura delle cose. Tenerle organizzate, ognuna al suo posto, riporle dopo averle usate, manutenerle periodicamente, aggiustarle se si rompono, pulirle se si sporcano: sembrano banalità? Eppure se fossero impulsi spontanei, farebbero già la metà della bellezza di un luogo. Aver cura significa amare, l’ho detto altrove parlando di bellezza (ora capite perché mi sta tanto a cuore?): una cosa è bella perché e se qualcuno se ne prende cura, perché la ama. Perché ci tiene. Non ci devi pensare, non te lo devi ricordare con una sveglietta: ti viene. O non ti viene: e se non ti viene la risposta è semplice, non la stai amando. Ogni volta che trascuri, non stai amando quella cosa. Per questo l’amore è un impegno. E la cura è lo strumento attraverso cui si vede materialmente quell’impegno: è il tempo che gli dedichi, gli sforzi fisici, e mentali. E’ la priorità che gli dai in relazione ad altre cose. Il rispetto. La delicatezza. La mano che gentile passa per levare la polvere, tirar su una coperta, piegare un lenzuolo.

Il secondo trucco è: poco e non in vista. Questo Marie Kondo ci mette un sacco di pagine a spiegarlo, ma è semplice da capire: basta eliminare il superfluo, bustoni e scatoloni di cose che non usi, magari neanche ti piacciono, e di sicuro occupano spazio. Via, via tutto il superfluo: quel che resta basta immagazzinarlo non in vista. Resterà meno dell’essenziale a prendere polvere e spazio, e questo già crea molta più pace sia dentro che fuori. L’assicuro.
Il terzo trucco è: vita. Ciò che rovina le immagini dei cataloghi di arredamento è che non sono vive. La vita di un luogo la da il colore, il movimento e la vita delle cose vive, le persone, gli eventuali animali e le piante. Fateci caso: una foto con delle piante, studiate anche quelle e non scelte né messe a caso, è molto più calda e viva di una con un ambiente di extra lusso ma asettico peggio che se l’avessero appena sanificato. Il dormitorio dei soldi per far vedere che hai soldi: esiste qualcosa di più triste? Oh, per inciso: le case e gli arredamenti extra lusso non mi sono mai piaciuti. Ci ho sempre sentito una freddezza oggettiva che travalica l’assenza di vitalità.

Arredomania per me è una parola magica.
La sua magia è stata questa: forse non ve l’ho mai raccontato, ma ho iniziato a lavorare proprio grazie a questo. Avevo lasciato da poco il mio ex compagno, la casa dove avevo vissuto con lui (dio, non potete capire il trauma), ero tornata quindi dai miei, in una condizione poco meno che disperata. Eppure in quel momento, all’inizio di un nuovo tutto, non mi sentivo disperata. Intuivo che se avessi voluto relazionarmi in modo sano con un uomo e con la vita avrei dovuto, per prima cosa, procurarmi un reddito, e avevo cominciato a spulciare gli annunci di lavoro come cameriera, addetta alle pulizie o badante (non avevo qualifiche per altro). Ma ero ancora così inetta che mi mancava il coraggio per uscire di casa.
Ignoravo che dio avesse altri piani con me, ma il bello di essere in “apertura” è che basta mettersi sulla giusta strada, e far le domande in modo chiaro: in pochi giorni o ore la risposta arriva.
Il coraggio me lo offrì un imprenditore di un brand di arredamento di lusso, che, per non so quale caso del destino, era finito sul mio blog, proprio questo qui, e non so davvero cosa diavolo gli piacque o perché. Fatto sta che mi contattò per chiedermi se me la sentissi di scrivere i testi per il suo nuovo catalogo di arredamento.
La domanda fu posta proprio in questi termini “Te la senti”. Mi avesse chiesto “Lo fai? E’ il tuo mestiere?” o cose così, la mia inettitudine mi avrebbe imposto di non mentire. Ma posta così, risposi quasi di getto “Sì!”. Cazzo sì! Scrivere era forse l’unica cosa al mondo in cui sentivo di avere una specie di talento; mi bastava mettere le dita su una tastiera ed ero certa, di quelle certezze difficilmente descrivibili, una specie di fede, che qualcosa di buono sarebbe venuto fuori. Non sempre era qualcosa di eccellente, ma, nella peggiore delle ipotesi, quanto meno accettabile.
E quanto all’arredamento: poteva esistere al mondo un argomento di cui mi sentissi più appassionata e ferrata?

Non sapevo neppure che quella cosa lì si chiamava copywriting. Ma iniziò proprio così: le prime duecento euro che abbia mai guadagnato in vita mia. Da lì, alcuni mesi dopo, sarei passata al catalogo online di un e-commerce di arredamento, e il resto è venuto da sè: avevo intuito che se avessi imparato bene, se fossi diventata brava tecnicamente, avrei potuto davvero camparci. Così fu che arrivai a scriverci, in seguito, per blog di arredamento. Esattamente quel genere di articoli che leggevo io, quando dovevo cercare di sopravvivere e l’unico modo che avevo trovato era quello.
Ora sono copy, ma anche editor e direttrice editoriale di un magazine, in cui tra le altre cose, parliamo di arredamento: a volte scrivo, a volte correggo cose scritte da altri, a volte dico agli altri cosa e come devono scriverle.
Ora vivo in una casa che adoro, in cui adoro aprire gli occhi al mattino, e che sto arredando a mia immagine e somiglianza, nello stile che più adoro, con lavoretti fatti da me e arredi, complementi, abbinamenti studiati: passo mesi a studiare un certo angolo della casa, affinché esprima quella cura e bellezza che ora non serve a salvarmi, ma a coltivarmi. In questo non sono cambiata molto. Sono ancora metodica, ponderata ai limiti dell’esasperazione e lenta, ma ho sviluppato cura e sobrietà e questo mi piace.

I luoghi in cui viviamo ci influenzano, e noi influenziamo loro: il loro aspetto dice chi siamo, quanto amiamo, se ci stiamo amando o se ci stiamo trascurando. Se siamo vittime delle mode del momento, o se sappiamo decifrare di che cosa noi abbiamo realmente bisogno fuori, come dentro. Dicono quanto abbiamo gli occhi aperti sulla nostra vita, o se preferiamo tenerli chiusi, o puntati altrove.
So che a questo punto qualcuno si sarà chiesto: ma, se una persona sofferente e disordinata dentro, concentra i suoi sforzi fuori nella cura del luogo in cui vive, non rischia di proiettare fuori il suo disagio e compensare, senza sostanzialmente star meglio né cambiare alcunché nella sua vita? Senz’alcun dubbio sì. Io ero una nevrotica testimone esattamente di questo: mettere ordine e abbellire fuori avendo l’illusione inconscia di star sistemando qualcosa dentro. Eppure, le due cose sono collegate, il dentro e il fuori, e credo possa esistere una quota di compensazione e proiezione, insieme a una reale cura delle ferite di dentro per contemplazione e cura di quelle di fuori.
Mi piace pensare che la bellezza sia portatrice di salvezza, sempre, e che questo sia stato il mio particolare modo di trovarla.

Non sai in quanto mi sono ritrovata in quello che scrivi! Brava
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Grazie Silvana 🙂 tra arredomani ci si capisce 😅
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condivido il tuo pensiero e sono interessanti le osservazioni nell’articolo, anch’io ho un blog dove tratto questi argomenti….ilbellodi.casa… se ti va dai un occhio…
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Con piacere. Spesso bazzico blog di arredamento, anche per lavoro, come dicevo qui, perciò unisco l’utile al dilettevole 🙂
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