Lo spazio che abito è angusto se ci sono solo io.
Eppure mi sembrava immenso, solo pochi istanti fa.
Era tutto per me. Con un recinto bello solido, come le mie certezze. Difenderne i confini, custodirne la potestà era estremamente facile: è sempre facile, quando l’accesso è esclusivo.
Com’era facile sentirsi forte, invincibile. É sempre facile quando non hai niente da perdere.
Lo spazio che abito era solo mio. Era pieno di specchi che rimandavano solo me me me. Una rassicurante me. Come un agente Smith infinito a domicilio. Io io io. C’ero solo io, fortissimamente io.
Nessuno a minacciarlo, nessuno a contestarlo, nessuno a mostrarmi le mie fallacie. Non ne avevo?
Certo che ne avevo. Come la paura fottuta di mostrarle. Di vedere lo sguardo deluso e sprezzante nei tuoi occhi. Occhi che non dovevo permettermi di vedere. Come la paura fottuta di perdermi, di non sapere più chi sono io. Perché mai avrei dovuto difenderli col coltello tra i denti quei confini sennò? Quante solide certezze di colpo gelatina…
Tu sei il nemico, lo straniero, qualcosa di alieno da me. Sei fuori dai miei confini. Che cosa vuoi da me? E se anche risponderai, saranno sincere le tue parole? Non ti avvisa mica il ladro quando vuole entrare a rubare, non è mica sincero l’oppressore quando vuole venire a distruggerti.
Eppure sono dei confini. Delimitano uno spazio che conosco a memoria, e mi annoia. Un paradiso o la cella di una prigione? Paradeisos vuol dire luogo recintato: lo sapevi? Siamo sinceri, gettiamo via la maschera: desidero da sempre sfidarli quei confini, vedere cosa c’è al di là; altrimenti perché saresti qui, sennò? Perché sarei venuta a cercarti, a lasciare che mi cercassi e mi trovassi?
Era una porta chiusa davvero ermeticamente, o era un’illusione ottica costruita ad arte?
Eppure, quando sei qui riesco a guardarti negli occhi.
Riesco a guardarti negli occhi finché mi rimandi la mia immagine: ancora me me me. Una rassicurante me. Finché tu sei me, resti qui con me. Se non è narcisismo questo… Com’è facile volerti bene. Com’è facile volerti qui. Trattenerti qui con me, in questo spazio non più angusto. Quando ci sei, questo spazio diventa universale, sconfinato, è esattamente come in quella canzone: non ci sono più pareti, nè soffitto, nè altri confini. Mi sembra di volare, e tu insieme a me. Non ci sono più leggi della fisica; non ci sono più leggi. Tutto è perfetto, è come doveva e deve essere, tutto ha un senso. Il mio, il tuo dolore hanno un senso. Tutta la strada fatta, quella in discesa e quella faticosa in salita, doveva essere fatta per arrivare qui. E guarda quanto spazio abbiamo… quanto ce n’è per contenere tutti e due?
Ma perché contenere? Perché trattenere? Forse che abbiamo paura che l’altro scappi via? Se non ci sono pareti, si può andare e venire per capriccio? Forse che non ci riteniamo abbastanza affinché l’altro scelga di restare, senza il bisogno di un obbligo o un ricatto?
Dio, spero di no. Uccidimi, sennò. Ti prego. Non posso sopportare l’idea di trattenere. Non voglio. Lo senti? Le pareti tornano anguste, appena mi sfiora il pensiero. Tornano strette a me e anche a te.
Quando sei qui, con me, io mi perdo nelle risate che mi fai fare, nella calma che porti nella mia insonnia. Tutto sembra sopportabile. Tutto è più facile. Anche il difficile.
Quando sei qui, con me, mi sento a casa, al sicuro; è un luogo amico, un luogo che conosco e riconosco, come le mie tasche. Non c’è pericolo, non c’è inatteso.
Ma quando tu non sei qui con me mi sento persa. Quando il silenzio, quando il disaccordo, quando non comprendo e non comprendi, all’improvviso s’alza un muro, tra me e te. E io non so più chi sono, e non so più chi sei tu. All’improvviso siamo in stanze separate, io con le mie ragioni, tu con le tue, e mi sento sola. Più sola che se fossi veramente sola. Sento freddo, sento la distanza di tutto il mondo separato da me, e tutto ciò che era buono, bello, immenso è altro da me. Cosa me ne faccio allora delle mie ragioni? E cosa te ne fai tu delle tue? Sono recinti di cui avevamo bisogno per capire chi eravamo… e a tal punto li amiamo da perderci e disunirci?
Sembrava immenso, e invece è angusto questo spazio con me sola. Non voglio più starci io da sola. Anche se sei altro da me. A cosa serve questo recinto: a proteggerci o a dividerci?
Non sono forse, sempre, ancora io, nonostante le mie ragioni? Non sei forse, sempre, ancora tu nonostante le tue? E se oltre le tue regole e le mie regole ci siamo ancora noi, il nostro mondo, il nostro cuore, i gesti, quella luce negli occhi in cui voglio affondare per vedere cosa c’è sul fondo… se oltre me e te c’è qualcosa di più importante e immenso, perché dovremmo restare separati adesso? Cos’è questo recinto delle nostre convinzioni, adesso?
Perchè mi sento tradita, se non sei qui con me? Perché non mi senti al tuo fianco se io non sono con te? Tu sei con me sempre, ovunque nel mondo. Quando me ne accorgo e anche quando non me ne accorgo. Ti sento: ti sei insinuato nel mio recinto; hai svelato cose e lati di me che non sapevo di avere. Mi hai insinuato modi di dire, battute, nuovi sogni e progetti. Mi hai risvegliato desideri che avevo dimenticato. Eppure, mi accorgo, sono sempre stati qui. Siamo sempre stati qui.
Io resto io, anche quando mi fondo con te. E tu resti tu, anche quando ti unisci a me. Forse che nelle nostre risate la mia voce non restava la mia? Forse che il tuo sorriso non restava tuo? Risuonavano insieme, andavano in armonia, ma era il tuo timbro che si sovrapponeva al mio. Perché unirsi dovrebbe dire diminuire e non aumentare? Cosa perdo, se ti trovo? Cosa perdi, se mi fai entrare?
Quali certezze di gelatina crolleranno? Questa vulnerabilità è davvero così pericolosa? Non è forse la morte qualcosa che conosciamo molto bene entrambi?
Quando tu sei qui e al tempo stesso non sei con me, sento tutta la tristezza di questo mondo e vorrei piangere di disperazione e solitudine. Gli spazi sono angusti e freddi, il tempo scorre senza senso e io mi ritrovo sola, tradita, abbandonata. Eppure sei qui; sono io a non sentirti. Ti vorrei così simile a me da non volerti tollerare diverso.
Che incredibile prepotenza. Che assurda incomprensione, la mia. Tagliarti via da me solo perché non sei perfettamente me?
All’improvviso, finalmente: tu non sei qui per me. Sei qui per te, e insieme a me allo stesso tempo. Tu sei qui a mostrarmi altri me che non conosco, che ancora non comprendo. Insegnami, guidami, mostrami. Rendimi più forte e coraggiosa, più pronta ad accettare anche la solitudine quelle volte che non sarai con me.
Riuscirò a starti accanto se tu resti tu e io resto io? Quelle certezze di gelatina torneranno solide o resteranno di gelatina?
Quando non sei qui con me proverò a cercarti altrove, a gustarmi il nostro spazio condiviso, a rispettarti. Che incredibile scoperta sai essere, che mondi che non so, non ci ero abituata. Quante cose da imparare. Quando non sei qui con me ti troverò negli spazi inesplorati, e questa stanza non sarà mai più angusta. Ci vuole coraggio? Ci vuole forza? Ci vuole speranza? Forse che abbiamo sognato un’esistenza diversa noi due? Non dormirò ma di gioia allora, non di angoscia, e grazie a te benedirò ogni cosa che non mi somiglia e non mi appartiene perché benedirò te e tutto quello che sei altro da me.
“É un amore impossibile” – mi dici.
Sesto Aurelio Properzio, Assisi, circa 47 a.C. – Roma, 14 a.C.
“É un amore impossibile” – ti dico.
Ma scopri che sorridi se mi guardi,
e scopro che sorrido se ti vedo.
“Di notte” – tu confessi – “io ti penso… Ti penso giorno e notte, e mi domando se stai pensando a me, mentre ti penso.
… La società, le regole, i doveri… ma tremi quando stringo le tue mani.”
“Meglio felici o meglio allineati?”
– Ti chiedo.-
E il tuo sorriso accende il giorno, cambiando veste ad ogni mio pensiero.
“Questo amore è possibile” – ti dico.
“Questo amore è possibile” – mi dici.